venerdì 15 novembre 2013

BRESCIA OGGI - 15 novembre 2013


SABATO 16  PRESENTAZIONE DEL LIBRO "IL MIO NOME E' GIOVANNI"
ore 20.30 - BIBLIOTECA DI GAVARDO (BS)

mercoledì 31 marzo 2010

"QUARTO di COPERTINA"

“Se avessi voluto, avrei potuto ancora salvarmi, e non solo dall’ergastolo,ma anche e per quanto sia spiacevole dirlo, da me stesso.Il tempo delle indecisioni era terminato, mi attendeva una scelta,una scelta che si poteva sintetizzare in due semplici parole:vita o morte”
“In questo mio rifiuto, inconscio credo o forse dettato dall’istintodi sopravvivenza, di vedere cosa ci fosse sotto di me, misono cullato per mesi, per anni, fin quando un giorno in cui le maree mi trascinarono in uno specchio d’acqua limpida, abbassando losguardo vidi in lontananza il fondo del mare e, appena sotto di me,i piedi ignari della distanza che li separavano da quel fondo cosìlontano. Solo allora iniziai a rendermi conto di come la mia fosseuna salvezza effimera, illusoria.”
Brevi spaccati di vita carceraria e un tragico fatto di cronaca nera accaduto alla fine degli anni Novanta, fanno da sfondo a questo libro che è insieme romanzo e testimonianza, un percorso emozionante, profondo e commovente in cui l’autore va alla ricerca della propria identità.Un percorso che si snoda attraverso sofferenze e pentimenti, rimorsi e voglia di riscatto personale, per giungere infine alla rinascita come uomo, padre e figlio.Sullo sfondo di una storia vera, l’autore ripercorre attraverso gli occhi delle emozioni gli anni trascorsi in carcere. Un viaggio emozionante, profondo e commovente all’interno dell’IO più profondo.

domenica 7 marzo 2010

SINOSSI


SINOSSI
Il libro, autobiografico, ha come filo conduttore gli anni della detenzione dell’autore, dal 1999 al 2008.Il libro si presenta su due piani narrativi distanziati temporalmente che si intrecciano, capitolo dopo capitolo, alternandosi: la notte e i minuti precedenti la scarcerazione e la narrazione, sotto forma di memorie, degli avvenimenti che lo hanno portato in carcere e il percorso di quegli anni.Si ripercorrono i vari momenti della latitanza, dell’arresto, dell’impatto con le carceri spagnole, dell’estradizione in Italia, della condanna all’ergastolo ridotta in appello a 21 anni, la separazione con la moglie, i rapporti con il figlio e la madre, la decisione di collaborare con la giustizia, la mancanza di una vita affettiva e sessuale, la “conversione” al buddismo, la continuazione degli studi e i primi permessi. E’ il racconto appassionato e toccante delle emozioni, delle riflessioni e dei pentimenti lungo un doloroso percorso interiore, fino alla presa di coscienza di ciò che era stata la sua vita, dei rapporti con sua madre e suo figlio e soprattutto, alla reale comprensione del significato di avere provocato la morte di un uomo.Nel racconto sono inseriti brevi ma significativi sprazzi di vita carceraria, un altrettanto breve “saggio” sulla situazione delle carceri in Italia e una valutazione sull’indulto del 2006 e termina con un epilogo dove vi sono racchiusi i mesi successivi alla scarcerazione.

sabato 20 febbraio 2010

RECENSIONE DI PAOLO BALDI su BRESCIAOGGI

Dal carcere al riscatto sociale: storia di una rivoluzione umana
LIBRI. Giraldi Editore ha distribuito la straordinaria autobiografia penitenziaria di un bresciano esordiente
Con «Io...l'assassino» Lentini racconta il suo «viaggio»: la trasformazione di una vita criminale senza remore in un percorso diretto alla parte illuminata delle cose
18/03/2010


Una scommessa vinta dallo spirito. Una vittoria del principio che vuole possibile ogni trasformazione, qualsiasi risalita da qualsiasi fondo; e che smontando ogni luogo comune e ogni diffidenza rende un omaggio emozionante, a tratti anche triste e crudo, all'umanità come valore assoluto e come strumento di riscatto. Stiamo parlando della «rivoluzione umana» di un omicida (in realtà solo complice di un omicidio secondo la verità poliziesca e giuridica, ma non per la consapevolezza del protagonista), oggi passato dalla dimensione della delinquenza abituale a quella della fede, della testimonianza e del sostegno ai carcerati. Alla dimensione dell'umanità, appunto.È un'esperienza drammatica, commovente e insieme entusiasmante la lettura di «Io... l'assassino», un libro fresco di stampa per Giraldi Editore con il quale Marco Lentini (è uno pseudonimo) si mette letteralmente a nudo, colpendo allo stomaco il lettore con un viaggio attraverso l'arroganza edonistica della vita criminale, il grigiore stupidamente inutile del carcere e la presa di coscienza e l'inizio del cambiamento; a partire da un taglio sofferto ma drastico con i codici comportamentali e gli obblighi «morali» della malavita.Un viaggio che inizia da una storia vera (come vero è l'intero diario parziale di una vita rinata), un gravissimo fatto di cronaca avvenuto nel Bresciano negli anni '90 che ha avuto l'autore come protagonista e che ha segnato in modo determinante la sua vicenda personale. A partire dalla condanna all'ergastolo ricevuta per quel dramma.Tutto inizia con una ricostruzione quasi giornalistica del fatto, e poi la storia prosegue con la breve fuga all'estero resa profondamente sofferta dalla necessità di tagliare i ponti con la famiglia: una piccola parentesi prima della cattura e dell'immersione nel buio di una, due, tante celle di penitenziari diversi ma sempre uguali della Penisola; tappe di un percorso segnato dalla difficile scelta della collaborazione, del taglio netto, ma angosciante, con un mondo che fino a poco prima sembrava l'unico possibile.Marco Lentini ci regala un affresco terribile della carcerazione, raccontandoci senza remore dell'inutilità riabilitativa di un sistema detentivo tecnicamente ed eticamente medievale. Ci parla della sua storia e insieme di quelle di detenuti impossibilitati al riscatto dai tempi burocratici e dalla mancanza di una qualsiasi rete di reinserimento. Ci dice di migliaia di albe solitarie viste o solo intuite attraverso le sbarre. Ci racconta con una violenta crudezza erotica e insieme con una infinita dolcezza emotiva della tortura di un'esistenza senza amore.Poi però la storia si complica e si arricchisce, perchè sulla scena appare l'umanità. Quella, straordinaria, dei docenti volontari grazie ai quali riesce ad ottenere un diploma, e che funziona da catalizzatore per la sua. Lui a quel punto non perde un'occasione, ed è davvero struggente il racconto dei colloqui con la madre e con quel figlio che ha abbandonato e che vuole a tutti i costi riavvicinare. È l'inizio di una prepotente, difficile ma fantastica risalita che passando da studio, lavoro, incubi ricorrenti e tuffi dolorosi nel proprio profondo all'improvviso accelera. Perchè qualcuno, una di quelle persone che illuminano le esistenze degli altri, gli parla del buddismo di Nichiren Daishonin. Così «Nam myoho renge kyo» entra lentamente nella sua vita, spalanca le porte appena socchiuse e gli regala altre, grandi vittorie. Fino a quel momento, bellissimo, in cui il cancello del carcere si chiude dietro le sue spalle per l'ultima volta.

martedì 2 febbraio 2010

PROLOGO "...io l'Assassino"


Io.
***
“Una potente Honda ‘Africa Twin’da enduro si stacca dalla lunga
fila di auto incolonnate sulla statale.
Con una manovra elegante entra nella piccola piazzetta situata a
fianco della piazza principale fermandosi accanto della prima di tre
grandi fioriere in cemento.
Sono esagonali e bianche, e il loro candore contrasta con la pavimentazione
rossiccia e grigia del porfido su cui poggiano. Vi sono
anche alcune alte palme.
L’uomo alla guida parcheggia con cura stando bene attento a tenere
la ruota anteriore rivolta verso la statale.
Solo quando è soddisfatto della posizione posa entrambi i piedi a
terra e spegne la moto senza però togliere le chiavi dal quadro.
Seduto dietro di lui un secondo uomo dalla corporatura atletica.
Porta uno strano copricapo bianco in testa e, stretta nella mano
destra, una grossa borsa da viaggio.
Nessuno sembra badare a lui né alla moto né al motociclista alla
guida che indossa un casco integrale la cui visiera scura non permette
di vederne il volto, e neppure che i due indossano guanti in
lattice bianchi.
Il primo a scendere è l’uomo seduto dietro.
Per un attimo si ferma accanto alla moto e scambia un rapido
sguardo e un altrettanto rapido impercettibile cenno d’assenso del
capo con chi sta alla guida.
L’uomo col casco posiziona la Honda sul cavalletto e osserva il secondo
posare a terra la borsa e dirigersi con passo lento ma deciso
verso la gioielleria situata ai margini della piazzetta.
Da dove si trovano loro dista all’incirca otto metri e rimane fra un
negozio di souvenir e un caffè i cui tavolini all’aperto sono gremiti
di gente intenta a bere un aperitivo e chiacchierare. Nessuno sembra
fare caso ai due. Non le persone sedute al bar o gli occupanti
delle macchine incolonnate sulla strada e neppure i numerosi turisti
che in quel momento gremiscono la piccola piazza.
Giunto a pochi passi dalla porta d’entrata in quel momento aperta,
l’uomo per un attimo appare quasi indeciso sul da farsi. Ma è solamente
un attimo e la sua non è indecisione. Cercando di mostrarsi
indifferente, getta veloci occhiate a destra e a sinistra, e quando è
certo di non essere osservato, con un solo rapido gesto si cala sul
volto lo strano copricapo bianco che si rivela essere una rete per
medicamenti.
Contemporaneamente infila una mano sotto la leggera maglietta
estiva e rapido scompare nel buio oltre la porta.
Solo allora l’uomo alla guida scende dalla moto.
Per alcuni attimi sembra fermarsi in attesa di qualcosa.
Nervosamente si guarda attorno.
Il sole basso sull’orizzonte e gli indumenti leggeri delle persone attorno
a lui indicano l’ora tarda del pomeriggio e la stagione estiva,
mentre alla sua sinistra, oltre la strada e la lunga colonna di auto,
le acque azzurre e sulla riva opposta le pendici del monte Baldo, rivelano
come si trovino sulle rive di un lago, per la precisione sul
lago di Garda.
Una coppia di turisti cinquantenni, dall’aspetto e abbigliamento
quasi sicuramente tedeschi, nel passargli accanto, rallentando fin
quasi a fermarsi, si girano ad osservarlo per poi riprendere con
quella tipica andatura di vacanzieri annoiati. Non è nulla. Probabilmente
erano rimasti incuriositi da quello strano individuo fermo
sotto il sole con il casco in testa, nondimeno dietro la visiera scura,
due freddi occhi neri, osservavano attenti ogni loro movimento. E
continuano a seguirli nella loro passeggiata finché non spariscono
fra le decine di altri vacanzieri che gremiscono la piazza.
Nonostante l’atteggiamento distaccato, dinanzi al loro interesse,
per mostrarsi tranquillo, finge di slacciare il cinturino sul mento
senza però togliere il casco.
…e alcune grosse gocce di sudore, presero a colargli dalla fronte.
Ancora uno sguardo, l’ultimo, indirizzato alle persone attorno a
lui e, afferrata la borsa lasciata a terra lì accanto alla moto, a sua
volta prende a dirigersi verso la porta della gioielleria dove soli
pochi attimi prima era sparito il suo complice. Giunto a due soli
passi, avvertendo un grido soffocato e il rumore di una colluttazione
provenire dall’interno, si ferma.
…altre gocce di sudore dalla fronte.
Nervoso lancia un’ulteriore occhiata attorno a sé per controllare
che nessuno fra i molti passanti abbia sentito o sia accorto che
qualcosa di strano sta accadendo.
Tutto sembra tranquillo ma dall’interno della gioielleria giungono
altri rumori.
Nuovamente e con crescente nervosismo si guarda attorno.
…e le gocce di sudore si moltiplicano al moltiplicarsi dei battiti del
cuore.
Anche questi vengono ignorati, ma è chiaramente preoccupato da
quanto sta udendo. Tuttavia non può più indugiare o esitare: c’e un
lavoro ad attenderlo oltre quella porta.
Stringendo con forza i manici della borsa, fa gli ultimi passi e sparisce
inghiottito dal buio.
Ma qualcosa non è andato come avrebbe dovuto.
Entrando avrebbe dovuto trovare l’orefice immobilizzato a terra,
invece, quasi si scontra col complice in precipitosa fuga. È un attimo.
Con un braccio lo blocca, di corsa copre i pochi metri che lo
separano dal gioielliere fermo a fianco del bancone, e con furia gli
si avventa contro.
L’orefice, per nulla intimidito e come già avvenuto col primo rapinatore,
reagisce e fra i due nasce una violenta colluttazione. Grida,
rumori di espositori rovesciati, imprecazioni, pugni, calci, la lotta
si fa sempre più cruenta ma nessuno dei due è disposto a cedere.
…il gioielliere si batte per difendere se stesso e il lavoro di una vita.
…il rapinatore per portare a termine il “colpo”, ma ancor di più
per evitare d’essere sopraffatto e arrestato.
L’uomo fermo sulla porta appare indeciso sul da farsi. Ma si tratta
di un’indecisione di breve durata. Rendendosi conto che richiamate
da quel trambusto alcune persone si stavano avvicinando, impugna,
a scopo intimidatorio, una Beretta 7,65 e grida al complice
ancora intento a lottare di mollare tutto e andare.
“Via, via, andiamo, muoviti” urla.
Il tono tradisce tutto il suo nervosismo e la preoccupazione di rimanere
bloccato all’interno del negozio dal quale non potrebbe poi più
fuggire. Lo sguardo è un continuo spostarsi dai curiosi che si fanno
sempre più curiosi e vicini e i due uomini ancora intenti a battersi.
Vorrebbe uscire, scappare, ma non si muove. Solo quando anche il
suo compagno, a quel punto consapevole di come il colpo sia fallito,
abbandona la lotta e torna sui suoi passi, lascia la sua posizione
e si dirige verso la moto.
Le persone lì attorno, vedendo i due uomini uscire di corsa e l’arma
nelle mani del primo, si scansano attonite domandandosi se ciò a
cui stanno assistendo è reale o se al contrario si trovano sulla scena
di un set cinematografico.
Solo adesso che sono fuori dalla gioielleria e a pochi passi dalla
moto i rapinatori sembrano aver ripreso il controllo dei nervi. Neppure
la gente che al loro passaggio si era spostata e ora li attornia
come quasi ad accerchiarli sembra intimorirli. In realtà non costituiscono
più un pericolo e difatti neppure vi badano. Il colpo è fallito
e il loro unico interesse è fuggire.
Raggiunta la Honda, il primo rapinatore, lo stesso che si trovava
alla guida quando erano arrivati, vi sale: e nello stesso istante si
ode il colpo assordante d’uno sparo.Ma è troppo intento a cercare
di far partire la moto per accorgersene. Non il complice, che
udendo lo sparo corre a ripararsi dietro il tronco della palma più
vicina.
Sempre all’oscuro di quanto in quel momento accade alle sue
spalle, l’uomo col casco continua, con frenesia, nel tentativo d’accendere
il mezzo: tutto inutile. Nella foga e l’eccitazione del momento,
si è dimenticato come quel modello abbia l’accensione
collegata al cavalletto, e fin quando questo non viene ritirato, mai
avrebbe potuto accendersi.Ma è troppo agitato e nervoso per ricordare
quel piccolo quanto fondamentale particolare, e se anche se
ne fosse rammentato, oramai è troppo tardi.
Il gioielliere lo raggiunge, e pur avendone la possibilità, invece di
sparargli cerca di fermarlo colpendolo sul casco col calcio della
sua pistola. Raggiunto da due, tre o forse quattro violenti colpi,
l’uomo, ancora e inutilmente con testardaggine continua imperterrito
a girare la chiavetta d’accensione. Ma i colpi inferti sul casco
lo hanno stordiscono leggermente togliendogli parte della già poca
lucidità, e forse anche a causa di questo non sente gli spari che seguono.
Quattro per la precisione, esplosi in rapida successione dal suo
complice.
Il secondo uomo, dopo avere trovato riparo dietro il tronco della
palma più vicina, pur notando l’aggressione, inizialmente non reagisce,
ma vedendo il suo compagno in difficoltà o forse preso dalla
paura, interviene sparando”.
-Un gran numero di persone si stavano avvicinando e, sicuramente
qualcuno stava già chiamando i carabinieri. Per cui, se volevano
riuscire a fuggire, non potevano perdere neppure un solo secondo-.
Più o meno questo deve aver pensato prima di sparare.
Ma l’uomo alla guida, pur non udendo gli spari, che alle sue spalle
qualcosa era accaduto lo capisce dalla gente, perlomeno da quella
che già non era corsa via, che gridando prende a fuggire in tutte le
direzioni. Sorpreso da quelle urla e da quella fuga generale e domandandosi
cosa stesse accadendo si gira:…e un’espressione di
terrore e paura e sgomento si disegna sul volto nascosto dalla visiera
scura del casco.
A pochi metri da lui il gioielliere giace a terra agonizzante”.
***
Mi sveglio di soprassalto con il cuore impazzito e il respiro affan-
noso come avessi corso per ore.
Gli occhi sbarrati guardano il nulla e nell’aria riecheggia un urlo, il
mio.
… e grosse gocce di sudore dalla fronte, seguendo il profilo del
viso, del collo, vanno a morire assorbite dal cuscino in spugna.
Per alcuni istanti rimango immobile avvolto nel silenzio della notte
ascoltando il mio stesso respiro: sto tremando. Forse, non ne sono
certo, anche esternamente.
Il tremore che avverto proviene da dentro. Forse dal mio animo o
dalla mente, non lo so, o molto più probabilmente è tutto il mio io
a tremare.
Nella testa sembrano ancora risuonarmi quei quattro spari, e le grida
di terrore e paura delle gente che fugge. E negli occhi, l’immagine
di quell’uomo, il gioielliere colpito a morte, mi appare più viva e
reale che mai.
Mi alzo a sedere nella stanza semibuia rischiarata dalla sola luce
dei lampioni che filtra dalla finestra, e quasi con un sospiro di sollievo
mi rendo conto di come si sia trattato solo di un sogno, di un
incubo orrendo.
Avrei urlato di felicità e non solo con la mente, ma svegliatomi del
tutto, mi accorgo come la luce proveniente dall’esterno, riflette sul
muro le grosse sbarre che stanno alla finestra.

venerdì 29 gennaio 2010

PAGINA 27 "io l'Assassino"

E proprio qui, incastrato fra la parete di fondo
e questo muretto, in uno spazio di non più di sessanta centimetri, si
trovava la “turca” dove espletare i propri bisogni.
Turca, oddio. In realtà si trattava di un semplice buco nel pavimento
di circa 30 centimetri di diametro attorniato da una corolla di piastrelle
con pendenza verso il centro e, almeno stando all’odore che
fuoriusciva, collegato direttamente con le latrine dell’inferno.
Nel vederlo ebbi un conato di vomito, anche se più della vista credo
fosse dipeso dal forte odore che emanava. Nel suo sporco raccontava
e gridava la storia di tutti i detenuti passati da lì e, pur se fra
smorfie di disgusto, mi sentii attratto. Attratto come se nel suo interno
vi fosse racchiusa l’essenza, l’Io più profondo, intimo, delle
persone che vi si erano accovacciate sopra. O forse era semplicemente
il mio sentirmi oramai “morto” ad attrarmi verso quello che
potevo considerare la mia futura destinazione: trascorrere il resto
della mia vita in carcere, la cloaca della società. Durò un solo
istante, ma si trattò di un istante lungo quanto una vita dove i miei
sensi presero a distinguere il fetore e riuscii a percepire il profumo
delle spezie del vicinoMarocco, l’odore acre del sangue coagulato,
la rabbia, la vita, la morte, l’attesa, l’agonia, il rimpianto, la sofferenza,
il dolore, la disperazione, il sale di tutte le lacrime versate. In
quell’anticamera dell’aldilà capii di essere veramente morto, e la
prova stava proprio nella mia capacità, altrimenti innaturale, di avvertire
quegli odori. Quel buco nero pulsava di vita propria: era la
matrice della terra, era la mia immagine. …morii e mi lasciai andare
dolcemente, e il buco nero mi accolse nel sul ventre caldo.